dott.ssa A. G. Curti
Quanto segue è una riflessione, che vorrei il più possibile libera e critica, sui fatti accaduti ad Orlando lo scorso dodici Giugno. Vorrei specificare, per quanto magari in modo superfluo, che si tratta di pensieri personali, di difficilissima esposizione, data la delicatezza – un eufemismo! – del tema, che impone un rispetto, un garbo e un tatto che difficilmente si riesce ad avere, specie per chi, come me, non scrive per professione.
Per incominciare, una brevissima ricostruzione dell’accaduto. Nella notte tra sabato undici e domenica dodici Giugno, un giovane uomo americano di origini afghane è entrato in un locale della città di Orlando, Florida, e ha iniziato a sparare sulle persone. Dopo le prime raffiche di colpi, l’attentatore ha preso in ostaggio qualche decina di persone, ha avuto alcuni contatti con il 911, ed è stato ucciso alcune ore dopo, quando la polizia ha fatto irruzione nel locale, ponendo fine a tutto. Nell’arco di quella notte, questo giovane americano ha ucciso 49 persone e ne ha ferite 53. Questi i numeri finali, numeri che fanno della strage di Orlando una delle più gravi sparatorie di massa nella storia degli Stati Uniti.
In un’epoca come la nostra, in cui quasi quotidianamente siamo informati di morti e feriti da ogni parte del mondo, penso sia tristemente difficile fermarsi e darsi il tempo mentale necessario per registrare realmente quanto appena detto. Proviamoci. Quarantanove persone uccise, cinquantatré ferite. Uccise e ferite mentre trascorrevano una serata a divertirsi in un locale della loro città.
Le riflessioni che vorrei condividere non riguardano tanto i fatti in sé, che, come intuitivo, sono da un certo punto di vista in-commentabili, quanto piuttosto quello che a questi fatti è seguito, nello specifico della nostra realtà nazionale. Come dicevo poco fa, vi è da premettere, nel nostro discorso, che viviamo purtroppo in un’epoca storica in cui le morti per attentato sono quasi all’ordine del giorno: ci giungono notizie, più o meno immediate, di persone uccise a Parigi, a Bruxelles, a Orlando, in ogni contesto e luogo, ed è perciò complesso per le nostre menti dare a queste morti non solo un senso, ma soprattutto un peso, e quando la nostra mente è chiamata ad affrontare un compito complesso, siamo per natura tentati di archiviare i dati nel modo più semplice, veloce e lineare possibile. Se questo è valido in linea generale per il nostro funzionamento, restano comunque alcuni elementi che, a mio parere, danno una specificità agli avvenimenti di Orlando e alla modalità con cui sono stati registrati dall’opinione pubblica.
In particolare, sto pensando a due elementi, concatenati, che hanno colpito la mia attenzione: in primo luogo, la confusività relativa all’attentatore e ai suoi moventi, e, secondariamente, la conseguente e altrettanta confusione che è serpeggiata nel collocare in coordinate sociali e politiche chiare quanto accaduto. Entrambi questi elementi, mi sembra, hanno in qualche modo contribuito a rendere la strage di Orlando un evento sì drammatico, ma tenuto più o meno esplicitamente distante dall’opinione pubblica.
Spiego meglio che cosa intendo per confusività: tutt’oggi, un lettore qualunque della stampa e dei media non riesce a comprendere con chiarezza le ragioni rivendicate dall’attentatore, nel marasma di ipotesi che vanno dalle motivazioni legate al terrorismo di matrice religiosa fondamentalista, a quelle riconducibili ad una omosessualità repressa e negata a tal punto da portare al “folle gesto”. Se si pensa a quest’ultimo, può sembrare ininfluente quanto sto scrivendo, ma mi permetto di insistere solo quel tanto che renda possibile l’argomentare la mia riflessione, perché penso che all’ambiguità delle motivazioni segua anche l’ambiguità delle reazioni di larga scala. Esse, infatti, non sono state chiare e univoche, come ragionevolmente lo sono state in simili drammatiche occasioni. La strage di Orlando, infatti, ha lasciato come un vuoto – di eco mediatica, di partecipazione collettiva, di schieramenti politici – che dal mio punto di vista può essere significato come segue: pare difficile ricondurlo ad un atto terroristico assimilabile agli altri perché ciò che ha colpito, disgraziatamente, non può essere mentalizzato come riconducibile a pieno titolo al mondo occidentale che tanto ci piace difendere e con cui ci piace identificarci. È quanto alcuni hanno cercato di esprimere con il “provocatorio” invito a mettere sulla propria bacheca facebook il “Je suis gay” paritetico al “Je suis Charlie”. Indipendentemente dallo specifico contenuto dell’esempio, penso che esso possa ben spiegare quanto sto dicendo: il “Je suis gay” non è stato pensabile, possibile, perché il target della strage apparteneva ad una minoranza che, ahimè, il main stream popolare non riconosce come rappresentativa di alcuna libertà occidentale. Se infatti siamo stati prontissimi a riconoscerci con i francesi e con i belgi – solo per citare gli accadimenti più recenti – è stata palpabile la difficoltà ad identificarci con gli americani colpiti, che, di fatti, non sono mai stati chiamati così neanche dalla stampa, mentre si è massimamente sottolineato il loro essere omosessuali. L’evento – uno dei più gravi, lo ripeto, nella storia degli Stati Uniti – è diventato così un ambiguo, confuso episodio, in cui era difficile comprendere, empatizzare, schierarsi: in questa confusione, c’è stato di tutto, dalle voci più gravi, ma almeno nette nella loro gravità, che hanno denigrato l’accaduto, alle più sottili difficoltà di vicinanza alle vittime, che hanno portato, ad esempio, a dimenticarsi del minuto di silenzio – gesto banale forse, ma convenuto socialmente come segnale di partecipazione e condivisione – durante la prima partita calcistica degli Europei che ha avuto luogo il giorno stesso in cui ci è arrivata notizia della strage.
Vorrei concludere lasciando aperta questa riflessione, e invitando ciascuno di noi a provare a rispondere a queste domande. Come mai la dimenticanza del minuto di silenzio? Come mai l’assenza o irrilevanza numerica della partecipazione sui social? Tali domande non hanno naturalmente l’obiettivo di una accusa, ma davvero di un invito, specialmente a chi ritiene che l’omofobia non esista, a chi pensa che di fronte a certe cose siamo tutti uguali, o a chi – e penso di rivolgermi alla maggioranza – semplicemente, in buona fede, pensa che sia un qualcosa che non ci riguarda.
sono molto d’accordo sui pensieri espressi nell’articolo. Non è un caso che, benchè la strage sia , numericamente, solo al di sotto delle torri gemelle, la stampa e i media ne parlino poco. In fondo..sono affari dei gay. Al massimo, si può invocare un problema di omofobia dell’assassino, per depistare da manovre più naziorganizzate. Comunque, come scriveva Lidia Menapace: ” Resistè !!”
Resisteremo.
Grazie dell’impegno