dott.ssa A. G. Curti
Il Ddl Cirinnà, approvato a Maggio di quest’anno, segna nel nostro Paese il primo passo in assoluto per il riconoscimento legislativo delle unioni omosessuali: un passo storico, senza dubbio, che finalmente ci allinea, seppur parzialmente, agli altri paesi – in ed extra Unione – a cui diamo per scontato di assomigliare per grado di civiltà, evoluzione e democrazia. Da più di un decennio la politica italiana cercava di dare una forma e uno statuto legislativi ad una realtà italiana fatta di tutta quella serie di persone, storie, affetti, progetti e impegni che, fino ad oggi, non potevano, letteralmente, avere una collocazione e un posto giuridici e, di conseguenza, simbolici. Come spesso accade ai primi tentativi, la Legge Cirinnà si accompagna anche a non poche perplessità e lacune che, pur non togliendo nulla alla storicità del passaggio, vale la pena di considerare in modo franco e critico. Uno degli elementi di maggiore dibattito, tanto nella comunità omosessuale quanto nel sentire comune del nostro paese, è stato la scelta di abolire, per le unioni civili omosessuali, il cosiddetto obbligo di fedeltà, allo scopo esplicito di differenziare tramite questo punto la forma giuridica dell’unione civile da quella del matrimonio.
Scopo di questo articolo è proprio quello di dialogare su questo punto, mantenendo sempre come sfondo trasversale il collegamento esistente tra il livello del riconoscimento giuridico e quello del riconoscimento sociale e soggettivo: in altre parole, vorrei che nel dialogare della scelta relativa all’obbligo di fedeltà, si tenesse sempre a mente che diritto e psicologia non sono affatto linee parallele, prive di punti in comune, ma che, anzi, costituiscono due ambiti che ricorsivamente esplicitano la loro influenza reciproca. Quello che non trova parola nella legge, non può trovare parola nel discorso sociale/psicologico, e viceversa.
Muovendoci dunque su questo sfondo, si delinea in modo più nitido il peso e l’impatto della scelta di abolire l’obbligo di fedeltà nelle unioni civili omosessuali. Un qualcosa che è stato deciso per un aspetto formale – rendere evidente a tutti la differenza tra unione civile e matrimonio di fronte alla legge – si tramuta in un aspetto sostanziale. Questo impatto si rileva non solo, come cercherò di spiegare meglio avanti, su un piano psicologico, ma ha anche tutte delle coordinate giuridiche.
Partiamo da queste ultime, e in particolare dalla lettura del Codice Civile relativamente a diritti e doveri dei contraenti matrimonio. Nel Titolo VI si legge:
“Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e dell’abitazione. […] Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia.”
L’obbligo alla fedeltà appare, in primis nella parola giuridica, come uno degli “ingredienti” da ricondurre a quel patto di reciproco impegno e sollecitudine che si presuppone leghi due persone che fanno questa scelta. Non si tratta tanto, o comunque sicuramente non solo, di un aspetto pragmatico, motivato anche, fin in tempi recenti, da una necessità di regolamentare il più possibile anche i rapporti sessuali tra persone, dal momento che i figli avuti dentro e fuori da un contratto matrimoniale avevano trattamenti e diritti differenti: si tratta in primo luogo di una dichiarazione di intenti che il contraente matrimonio fa, nei confronti del proprio coniuge e della comunità sociale, relativamente allo scegliere una progettualità duale fatta di reciproco impegno. Questa interpretazione di respiro più ampio – e più sensato! – si allinea a quella fornita da una sentenza del 2008 della Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione che argomenta come “l’obbligo della fedeltà è da intendere non soltanto come astensione da relazioni extraconiugali, ma quale impegno, ricadente su ciascun coniuge, di non tradire la reciproca fiducia ovvero di non tradire il rapporto di dedizione fisica e spirituale tra i coniugi, che dura quanto dura il matrimonio.” Se l’aggettivo “spirituale” rischia di confondere le idee per i suoi forti collegamenti semantici con la dimensione religiosa, io penso si potrebbe semplicemente riflettere su come il concetto di fedeltà esplicitato dalla Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione sia riconducibile a quello di lealtà, in modo un po’ più scevro da convinzioni o credi personali. Di fatti, la sentenza continua dicendo che la fedeltà – o lealtà – così intesa “impone di sacrificare gli interessi e le scelte individuali di ciascun coniuge che si rivelino in conflitto con gli impegni e le prospettive della vita comune. In questo quadro l’infedeltà affettiva diventa componente di una fedeltà più ampia che si traduce nella capacità di sacrificare le proprie scelte personali a quelle imposte dal legame di coppia e dal sodalizio che su di esso si fonda.”
È evidente che in gioco ci sia dunque molto di più di un divieto imposto, di una regola formale: in gioco c’è precisamente il senso più profondo di una scelta condivisa e progettuale, che è necessario pensare basata su una reciprocità di sollecitudine e impegno.
Il passaggio al valore psicologico e sociale di quanto esplicitato dalla giurisprudenza mi sembra a questo punto immediato e quasi implicito. Purtroppo, immediato ed implicito è anche l’impatto che ha l’abolizione dell’obbligo di fedeltà nelle unioni omosessuali: bel lungi dall’essere un cavillo formale, si palesa in tutta la sua gravità nei termini di impensabilità che le relazioni omosessuali possano avere le stesse caratteristiche sostanziali, a livello di quell’impegno e sacrificio tesi ad una progettualità di coppia di cui parla la sentenza della Corte di Cassazione.
È in questo che consiste, io credo, la quota di danno che la comunità omosessuale italiana e la collettività in senso più ampio hanno ricevuto dalla versione definitiva della Legge Cirinnà. Da un lato, le persone omosessuali sono ancora una volta ostacolate nella possibilità fondamentale di immaginarsi, pensarsi, crescere come soggetti potenzialmente capaci di costruire una progettualità di coppia, oltre che individuale. In questo senso, è ovvio che il fatto che, per la legge, non sia obbligatorio essere fedeli non implica automaticamente che non lo si possa essere, ma a livello simbolico il meta-messaggio che viene assimilato (tanto dalle persone direttamente coinvolte, quanto dalla comunità di cui queste fanno parte) è che non ci si aspetta dalla relazione omosessuale quella qualità affettiva profonda e stabile che quindi contempla anche la reciproca fedeltà e sollecitudine. Dall’altro lato, è altrettanto drammatico constatare l’impatto che questo discorso ha sulla collettività in senso esteso: anche in questo caso, si è di fronte ad una meta-comunicazione che ci dice come è stato preferibile mantenere una differenza esclusivamente formale tra unioni civili e matrimonio, piuttosto che tutelare un sistema di valori condivisi e indipendenti dall’orientamento sessuale, quali appunto quello della stabilità e serietà affettiva.