dott.ssa A. G. Curti
In questo periodo di denso dibattito rispetto ai diritti civili delle persone omosessuali – dalle manifestazioni “svegliati-Italia” al Ddl Cirinnà – sono stata colpita dall’utilizzo della parola “riconoscimento” all’interno di questo campo di battaglie e rivendicazioni politiche, giuridiche e sociali.
Penso di esserne stata colpita in quanto si tratta di una parola molto cara alla psicologia, una parola ritrovata infinite volte tanto nei libri quanto nel parlare clinico. Si può dire, in modo generale, che in ambito psicologico con il termine riconoscimento si considera una delle esperienze fondanti la nostra esperienza soggettiva, quindi, letteralmente, dell’esperienza che facciamo di essere noi stessi: tale consapevolezza di sé, infatti, pur essendo composta da infiniti elementi e sfumature, ha come fondamentale punto di origine l’esperienza che ognuno di noi fa, in modi e qualità diversi, di stare con qualcuno che ci riconosce, appunto, come dotati di una mente, di pensieri, bisogni, emozioni, affetti e così via.
Si tratta dunque di un costrutto di enorme importanza e trasversalità, su cui è possibile dialogare tra filosofia, psicologia, sociologia e, perché no, anche nel diritto. Il mio tentativo, qui, sarà dunque quello di mostrare come, all’interno del valore metaforico e trasversale del concetto di riconoscimento, a partire dal discorso psicologico e, in parte, filosofico, si possa poi declinare lo stesso nell’apparentemente diverso campo del diritto.
Prenderei le mosse dalla frase riassuntiva del pensiero del filosofo G. Berkeley che, rifacendosi ad una lingua più antica di lui, dice “Esse est percipi”, vale a dire “Essere coincide con l’essere percepito” (1). È un modo per dire che solo ciò che viene percepito dalla mente può esistere e, per quanto sicuramente tale principio al suo estremo radicale può suscitare delle perplessità, penso che sia in parte anche innegabile: non possiamo conoscere, né tantomeno ri-conoscere, un qualcosa che non abbiamo prima percepito e quindi contemplato nella nostra mente. In ambito psicologico, è possibile constatare il medesimo processo: per quanto spaesante da ammettere a noi stessi, dobbiamo prendere atto che c’è tutto un tempo in cui un essere umano può esistere solo a condizione che ci sia qualcuno disposto a riconoscerlo, a vedere, captare, interpretare i suoi segnali, bisogni, emozioni. A tal proposito basti citare le decennali ricerche sperimentali sull’infanzia condotte da L. Sander (2), il quale ha potuto verificare come l’individualità di ciascuno può emergere e poi mantenersi solo attraverso una complessa ed innata complementarietà specifica e sincronizzata tra gli stati interni del bambino e la capacità di riconoscerli da parte del caregiver. Non si tratta semplicemente di una sorta di “etichettamento” di emozioni e pensieri del bambino, ma, attraverso un continuo processo di rispecchiamento sincronizzato, si garantiscono al nuovo nato le basi per la costruzione di un senso di sé come dotato di pensieri e affetti, e, quindi, come soggetto agente nel mondo dotato di una propria specifica e irripetibile identità.
Se dunque proviamo a fare un passaggio ulteriore, potremmo cercare di guardare, attraverso questi occhiali appena descritti, al mondo del Diritto e quindi del riconoscimento legale. Non a caso, io penso, il parlare comune ha scelto la medesima parola – riconoscimento – per indicare la richiesta che alcuni diritti fondamentali siano garantiti a tutti. Tenendo a mente quanto precedentemente esposto, si capisce bene come tale richiesta riguardi livelli più profondi, importanti e complessi della semplice stesura di una legge, e ancor meglio si comprende come il discorso di alcuni sul fatto che le leggi non cambino le società sia in gran parte pretestuoso. Penso infatti che se anche fosse vero che le leggi, di per sé, non modificano un’idea sociale (una verità su cui si potrebbe discutere a lungo, basti pensare alle reciproche influenze tra emancipazione delle donne e loro acquisizione di diritti), resta innegabile, invece, che l’assenza di leggi e riconoscimenti abbiano un impatto decisivo. In altre parole, se anche fosse vero che riconoscere il diritto alle persone dello stesso sesso di sposarsi non per forza coinciderebbe con una maggiore accettazione sociale del fenomeno orientamento sessuale, è evidente che il non occuparsi di tale fenomeno, a livello di diritto, abbia non una conseguenza “neutrale”, bensì la svalutazione e il disconoscimento del fenomeno sociale stesso.
Ritornando alla frase berkeleyana “Esse est percipi”, potremmo quindi valutare che ciò che non viene percepito tramite la legge – la possibilità di unire le proprie vite qualora appartenenti allo stesso genere sessuale – cessa di esistere nella mente delle persone e, contemporaneamente, ciò che viene mantenuto distante dalla mente delle persone, non può essere visto, espresso, richiesto.
In conclusione, spero si possa comprendere come il riconoscimento di un diritto abbia radici e ripercussioni molto più lontane e profonde di quanto a primo avviso si potrebbe pensare. L’opposto del riconoscimento, che è il disconoscimento, provoca ciò che in psicologia clinica si può definire come una severa mancanza nell’esperienza del proprio senso di sé: non si tratta di una semplice assenza di riconoscimento, ma di una disconferma nel più radicale processo di costruzione della propria identità. Parimenti si potrebbe dire, nel campo del diritto, che un vuoto, una mancanza legislativa non corrisponde solo all’assenza di una legge ma, in modo ben più ampio e profondo, al disconfermare la possibilità stessa per le persone omosessuali di futurizzarsi in ambito affettivo, relazionale e familiare.
Note al testo:
- Per un approfondimento si veda Bruno Marciano (2010), George Berkeley. Estetica e idealismo, Genova: Nova Scripta.
- Per i suddetti dati di ricerca si vedano: Sander L.(1995), Identity and the experience of specificity in a process of recognition, in Psychoanalytic Dialogue, 5, pp. 579-593; Sander L. (2002), Thinking differently. Principles of process in living systems and the specificity of being known, in Psychoanalytic Dialogue, 12, 1, pp. 11-42.